Nelle trincee insanguinate del carso, parte III

C'era stata poi, come ho già accennato in precedenza, la nostra offensiva del 28 giugno sul Carso e proprio questa azione aveva fatto decidere al Comando austro-ungarico di passare senz'altro all'impiego dei gas all'alba del giorno successivo.
Era stato accertato ch il raggio di azione deleteria dei gas si estendeva fino a 5 chilometri, mentre l'effetto letale era previsto entro il raggio di un chilometro. Il Comando nemico calcolava perciò che i gas emessi sul San Michele raggiungessero l'Isonzo e aveva assegnato appunto questo obiettivo ai reparti che dovevano irrompere nelle nostre linee ad emissione avvenuta. Per l'attacco erano stati designati i reggimenti 1° e 17° della 20a Divisione Honved, giunti in posizione quella notte stessa, in sostituzione dei reparti duramente provati da nostri precedenti attacchi.
Alle fanterie erano stati assegnati rinforzi di zappatori per la distruzione delle difese antistanti le nostre trincee e per rovesciare la fronte di queste non appena fossero state occupate. Alcuni ufficiali di artiglieria erano al seguito delle fanterie con lo scopo di stabilire subito degli osservatori sul ciglio carsico dominante le nostre posizioni, per meglio regolare il tiro delle proprie artiglierie.
Si giunse così al mattino del 29 giugno 1916. Dopo un violento fuoco di artiglieria, il nemico all'improvviso diresse verso di noi dei densi soffiori di gas che, favoriti da un leggero vento che spirava verso il piano, investirono le nostre linee di quel settore. La visibilità, a causa del fumo delle granate e dei gas, era ridottissima e soltanto a tratti si riusciva ad intravvedere il sole.
Il lancio dei gas ebbe naturalmente, almeno in un primo momento, conseguenze disastrose per noi. I due terzi circa degli uomini del 9° e 10° Reggimento Fanteria (Brigata Regina), del 19° e 20° (Brigata Brescia), del 29° e del 30° (Britata Pisa), del 47° e 48° (Brigata Ferrara), nonché molti bersaglieri e diversi soldati di altri reparti, appartenenti all'11° Corpo d'Armata, dovettero soccombere colpiti dalle tremende esalazioni di gas.
Anch'io quel giorno corsi il terribile rischio di morire asfissiato e fu per puro miracolo che riuscii a salvarmi.
Mi rifugiai infatti in un sotterraneo di una casa di Sdraussina e precisamente quella che si trovava di fronte alla grande villa dov'erano posti i nostri comandi. Vi era nei pressi la cucina del reggimento e là alcuni soldati e cuochi stavano alimentando al massimo il fuoco, bruciando una grande quantità di legna. Evitarono così che il gas penetrasse nel rifugio e fu proprio grazie a loro che io fui salvo.
I plotoni nemici intanto, approfittando dei fulminei effetti letali o di annichilimento prodotti dai gas sulle nostre truppe, si lanciarono all'assalto e penetrarono in alcune nostre trincee.
Ma, dopo i primi attimi di sbigottita sorpresa, da parte italiana si era subito corsi ai ripari, facendo affluire prontamente nella zona i rincalzi e organizzando un rapido contrattacco. Così, mentre tutte le nostre artiglierie, e in particolare le batterie che erano piazzate a Gradisca, stavano concentrando il tiro con fuoco accellerato sulle forze avversarie che uscivano dalle loro trincee per occupare le nostre, i soldati di rincalzo corsero prontamente all'attacco con mitraglie e bombe a mano e all'arma bianca.
Combattendo da valorosi e sfidando gli effetti dei gas, essi riuscirono a far sloggiare il nemico da tutte le nuove posizioni appena occupate, infliggendogli sanguinose perdite e catturando quattrocentotrè uomini.
Alle nove del mattino i due battaglioni del 1° Honved impegnati in quell'azione avevano già almeno ottocento uomini fuori combattimento e perdite fortissime subì pure il 61° fanteria. I prigionieri si mostrarono molto sorpresi per la nosra furiosa reazione, alla quale certo contribuì enormemente l'indignazione dei nostri soldati per il barbaro mezzo di lotta adoperato dall'avversario. E' noto infatti, che, oltre ad usare il micidiale gas asfissiante, gli austro-ungarici avevano anche costituito squadre speciali di uomini muniti di mazze chiodate, con l'incarico di finire a colpi di randello i soldati italiani trovati tramortiti per effetto dei gas.
Quella giornata del 29 giugno resterà memorabile nella storia della nostra guerra per la prova di cinismo, slealtà, efferatezza e ferocia dimostrata dal nemico. Tuttavia, grazie allo slancio delle truppe dell'11° Corpo d'Armata (21à 3 22à Divisione) e in particolare alle fanterie appartenenti alle Brigate Regina, Brescia, Pisa e Ferrara, che pure erano state le più colpite dai gas, si potè trasformare in un prestigioso successo quella che nelle intenzioni del nemico doveva certamente essere la nostra più amara sconfitta.
Chi si distinse maggiormente nell'organizzazione della prima linea fu il colonnello Gandolfo, comandante del 10° Fanteria. Alla testa di un gruppo di uomini, imbracciando egli stesso un fucile, sostenne l'urto di forti reparti nemici e riportò una grande vittoria.
Gli oltre quattrocento prigionieri furono poi inquadrati sulla strada di Sdraussina, dove è ora l'albergo "Al Gelso".
I soldati morti a causa del gas, in parte furono deposti sul piazzale dell'infermeria a Sdraussina, nella casa posta all'imbocco della strada che portaa S. Michele, ed in parte nella piccola piana che fiancheggia la strada lungo l'Isonzo: là vennero scavate ampie fosse dove i cadaveri furono sepolti.
Grande fu naturalmente lo sdegno dei soldati e degli ufficiali per il barbaro mezzo di lotta usato dal nemico in quella dolorosa e straziante giornata del 29 giugno 1916, che vide tante vittime.
Fra queste, ritengo doveroso tributare un caldo elogio al colonnello Ronchi, comandante il 30° Fanteria e all'aiutante maggiore in prima capitano Arturo Pannilunghi, colpiti entrambi dal gas, i quali rimasero al loro posto di comando fino alla morte, mettendo in salvo la bandiera.
Il coraggioso capitano moriva quattro giorni dopo e alla sua memoria venne concessa la medaglia d'oro al Valor militare.
Anche un generale uscito per visitare le prime linee accompagnato dal suo aiutante maggiore in prima capitano conte Antonio Revedin, mentre era sulla via del ritorno, fu preso di mira dall'artiglieria nemica. Il generale riuscì a scampare alla morte, mentre il suo aiutante maggiore venne ferito gravemente e morì mentre veniva trasportato al posto di medicazione di Sdraussina nei pressi del casello n. 44 della ferrovia.

Ritorna all'elenco dei diari