Nelle trincee insanguinate del carso, parte IV

Passata quella tragica giornata che tanti lutti costò al nostro Paese, finalmente dal 6 al 9 agosto 1916, dopo tanti sacrifici, si realizzò il nostro sogno con l'occupazione del San Michele e di San Martino, azioni che contribuirono alla presa di Gorizia.
Gli austro-ungarici, circondati sulla roccaforte del San Michele resistettero per circa tre giorni al nostro incalzare, dopodiché non rimase loro che arrendersi. La battaglia costò gravie perdite ad ambo le parti.
Sulla Cima San Michele è stato eretto un cippo dedicato alla memoria di quanti combatterono e morirono in quei giorni, con su scritto, a ricordo della battaglia: "In questo luogo soldati italiani e ungheresi si affratellarono nella morte".
Dopo la presa del San Michele il mio reggimento, assieme ad altri, era rapidamente avanzato fino ad Oppacchiasella.
La cucina della nostra mensa era però rimasta ancora a Sdraussina e perciò una volta al giorno si doveva partire col carico in spalla per portare la mensa agli ufficiali in prima linea ad Oppacchiasella. Si ritornava poi a Sdraussina alla sera e si era continuamente in pericolo di venir colpiti dal nemico.
Quanti chilometri ho percorso in quei giorni! E che sgobbate! Eravamo proprio di ferro, come appunto diceva un nostro comandante superiore che soleva ricordarci: "Brigata Ferrare - Brigata di ferro!".
Un giorno, mentre mi trovavo ancora a Sdraussina, sentimmo esplodere alcuni violenti colpi di cannone: un proiettile andò a finire nell'Isonzo vicino alla passerella, un secondo colpì una salmeria di pochi muli, uccidendone uno. I nostri ufficiali naturalmente rimasero molto sorpresi da quegli spari ignorandone la provenienza, ma poi all'osservatorio fu loro comunicato che provenivano dal San Michele. Stupiti perché il San Michele era completamente in nostre mani da più giorni, essi inviarono subito dei reparti sul monte per individuare esattamente il luogo da cui era stato sparato. La postazione nemica, che dominava la strada che porta al San Michele, non fu scoperta subito perché era tutta ricoperta d'arbusti che la celavano quasi perfettamente alla vista, ma quando venne finalmente individuata e circondata dai nostri soldati, ne uscirono quattro o sei combattenti austro-ungarici che si arresero subito. Dissero di essere molto affamati e aggiunsero di aver sparato non per provocarci danno ma per farsi scoprire. on erano usciti spontaneamente perché temevano di venir massacrati.
Un altro giorno partimmo col nostro carico (tutti noi del reparto mensisti), diretti come sempre ad Oppacchiasella. Erano passati pochi giorni dalla conquista della piccola località carsica e, appena arrivati, due dei miei compagni caddero purtroppo prigionieri del nemico perché avevano oltrepassato per errore la prima linea.
Altri commilitoni, tra cui ricordo un certo Bugini di Bergamo, furono invece colpiti all'uscita di un camminamento e non ne seppi più nulla.
Io fortunatamente rimasi indenne e così, con tanto dispiacere nel cuore per la sorte toccata ai miei compagni, ripresi la via del ritorno da solo.
Quando arrivai a Devetacchi, trovai un'autobotte militare, a bordo della quale andai fino a Ronchi (Ronchi dei Legionari). Là ebbi la felice sorpresa di incontrare mio fratello che da lungo tempo non vedevo e che militava nel Genio Minatori. Dopo essermi intrattenuto un po' con lui, ripresi a piedi la strada che portava a Sdraussina, dove arrivai dopo mezzanotte. Appena mi vide arrivare, il sergente esclamò: "Finalmente uno che ritorna!".
Fortunatamnte più tardi rientrò anche qualche altro mio compagno che era riuscito a uscire sano e salvo dalla brutta disavventura capitataci. Appena fu sistemata la prima linea, trasferimmo la nostra cucina in una casa di Devetacchi, dove rimanemmo fino alla presa di Castagnevizza. Dopo qualche tempo, nel valloncello di Devetacchi e Marcottini, furono piazzati diversi cannoni di vario tipo, fra cui anche i 149 prolungati, per rinforzare le nostre nuove posizioni raggiunte.>br/>Un giorno che per puro caso mi ero avvicinato ad uno dei nostri pezzi d'artiglieria della Campale pesante, incontrai con mia immensa gioia un artigliere mio compaesano, un certo Mazzariol.
Qualche tempo dopo, quando ormai le nostre artiglierie erano già tutte sistemate nelle nuove linee e celate tra ramaglie e cespugli, verso le nove del mattino vidi comparire nel cielo sopra di noi due ricognitori austro-ungarici, provenienti dalla parte di Trieste. Non volavano tanto alti e perciò erano ben visibili in quella giornata contraddistinta da condizioni atmosferiche splendide. All'improvviso però vedemmo arrivare a velocità molto sostenuta un nostro caccia proveniente presumibilmente da Palmanova, che volava ad un'altezza molto superiore a quella degli aerei nemici. Appena fu giunto sopra gli apparecchi austro-ungarici, il nostro caccia fece diversi giri della morte, tanto che noi tememmo che fosse stato colpito e che stesse cadendo e poi, quando fu a buon tiro, cominciò a mitragliare gli aerei avversari. Uno dei ricognitori austro-ungarici fu colpito quasi subito e precipitò al di quà della nostra linea di Oppacchiasella, l'altro, fingendo di essere colpito, puntò verso Gorizia e il Sabotino nel tentativo di oltrepassare il confine, ma venne subito inseguito dal nostro caccia. In seguito si seppe che anche il secondo aereo nemico era stato abbattuto dal nostro velivolo e ci fu riferito che il valoroso protagonista di quel vittorioso duello aereo era stato il tenente - oppure capitano, non ricordo con esattezza - Francesco Baracca, a bordo del suo famoso "Falco".
Eravamo così giunti nell'autunno del 1916. Il tempo si era ormai volto al brutto e una violenta pioggia battente cadeva in continuazione senza concedersi quasi mai sosta. Nonostante le pessime condizioni atmosferiche, le nostre truppe tuttavia avanzarono ancora, mentre il nemico ripiegava su altre linee.
Conquistammo così importanti trinceramenti austro-ungarici su un terreno insidiosissimo e sotto il martellante bombardamento dell'artiglieria nemica che c'investiva da tutte le parti con i suoi grossi proiettili.
Si avanzava in un inferno di fango e di fuoco. Il 2 novembre 1916, mentre - come di consueto - ero di ritorno dal servizio di portamensa agli ufficiali della mia compagnia in prima linea, trovai sulla linea di resistenza degli austro-ungarici nei pressi di Loquizza, - già occupata in quel momento dai nostri - un povero militare nemico dall'età apparente di 18, 19 anni che gemeva immobile con una ferita alla parte destra della fronte, mentre una striscia di sangue gli bagnava il viso. Mi diressi verso di lui, impietosito da quegli occhi imploranti e intenerito dalla sua giovane età, e mi fermai per soccorrerlo ma, mentre mi accingevo a farlo, da un'altura gli austro-ungarici colà barricati, mi spararono un colpo di shrapnell. Fortunatamente i frammenti del proiettile passarono sopra la mia testa senza colpirmi. Certamnte quel povero giovane avrebbe meritato soccorso da parte mia ma, come si vede, non mi fu proprio possibile prestarglielo perché avrei sicuramente pagato con la vita tale gesto.
Il giorno dopo, attraversando la strada per Castagnevizza-Campobello, rimasi gravemente ferito alla testa da una scheggia di granata che mi procurò una menomazione alla vista.
Ebbe fine così per me quell'infernale fuoco della morte lungo le linee dell'insanguinato Carso. Dopo la convalescenza, venni inviato al deposito del 47° Fanteria a Lecce dove continuai a prestare servizio militare fino al 1° marzo 1919, giorno del mio congedo.
Non ebbi più perciò il modo di rivedere il Carso, fino alla conclusione della guerra. Mai comunque potrò dimenticare quei giorni gloriosi di vita e di morte trascorsi sulle alture insanguinate del Carso, ricoperte di gloria e di sacrificio per salvaguardare i sacri confini della nostra Patria.

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