Gli arditi sul San Gabriele - 1917, parte II

Sera del 4 settembre 1917
E' stato un giorno di gloria nè penna umana avrà la potenza di descriverlo, né genio di poeta avrà pari l'esito alla vittoria nostra per immortalarla nel canto.
Le Fiamme Nere hanno vinto.
Metà dei nostri ha fatto sacrificio sublime del suo sangue, ma la montagna terribile, che nessun disperato valore di eserciti aveva potuto fino a ieri espugnare, è stata conquistata, dopo una mischia formidabile, da quattrocento uomini votati alla morte, né sono valsi il numero stragrande dei difensori, la sapienza insuperabile delle difese, l'ostilità della natura e i molteplici ritorni nemici.
L'attacco degli arditi cominciò stamattina poco prima delle sei, circa venti minuti dopo l'inizio del fuoco di tutte le nostre artiglierie.
Il sole sorgeva dietro la cima del monte nel cielo purissimo; sotto, nella valle, l'Isonzo serpeggiava come un nastro di smeraldo e Gorizia rideva incantevole nella pianura e dalla Sella di Dol si vedeva un triangolo del vallone di Chiapovano tutto scintillante al primo sole come una promessa.
Ma nel sorriso meraviglioso del mattino il S. Gabriele era torvo, corrucciato, fosco, impennacchiato di cento colonne di fumo che lo facevano assomigliare ad un favoloso vulcano.
E i cannoni nostri lo tempestavano furiosamente di colpi, lo scheggiavano, lo dilaniavano, lo sconvolgevano.
E sotto la violenza del fuoco nostro l'assalto delle Fiamme Nere scattò.
Un ordine passò nella trincea da Dol a S. Caterina:
- Tenersi pronti!
Un secondo ordine volò rapido come il pensiero:
- Avanti!
E i parapetti delle trincee furono scavalcati con uno sbalzo e l'assalto passò velocissimo, tinse di verde e di nero i fianchi aspri della montagna, s'arrampicò sulle rocce, si frastagliò tra i macigni, scomparve nei boschetti, dritto verso le trincee del nemico.
E prima ancora che il volto e la baionetta d'un tedesco si mostrassero, fu versato il primo contributo di sangue italiano.
Caddero i primi sull'erta, sotto le raffiche furoise delle nostre artiglierie, perchè s'erano spinti troppo oltre, perchè avevano voluto gareggiare con le nostre granate e s'eran cacciati sotto la pioggia micidiale dei proiettili, sotto l'infuriare delle schegge e dei sassi, impazienti di affondare le lame nelle carni del nemico.
Poi, a un tratto, i cannoni tacquero e si fece, per poco, una calma sinistra, sepolcrale. Poi fu un urlo immenso e lo sentirono certo i nostri dal Santo, dal Sabotino, dalla valle.
E la vera, la grande, la immane battaglia, cominciò.

Apriva la strada alla prima colonna, quella di sinistra, un plotone di Fiamme Nere della III compagnia comandato dal tenente conte Max di Montegnacco, friulano di San Girgio di Nogaro, alto, castagno, simpaticissimo. Compito suo era quello d'impadronirsi della linea nemica, oltrepassarla, conquistare il "fortino" austriaco, scendere giù nella rotabile e, aggirando da sinistra il monte, puntare risolutamente su Ravnica, seguito da un battaglione del 213°.
La trincea fu raggiunta al primo balzo, sotto il tiro violentissimo delle nostre artiglierie. Successe un breve, accanitissimo corpo a corpo con le vedette nemiche che furono tutte trucidate, poi il plotone si slanciò avanti.
Ed ecco, lungo un camminamento, venire una schiera di portatori austriaci: era la corvèe che portava il caffè al nemico. Fu raggiunta e lì, sotto il tiro delle mitragliatrici del fortino, gli arditi vollero fare onore alla cortesia tedesca che offriva loro il caffè e bevvero.
Poi fu dato, fulmineo, terribile, l'assalto al fortino.
Lo difendevano una cinquantina di uomini e quattro mitargliatrici sapientemente appostate, era tutto circondato da reticolati, cavalli di frisia e gabbioni spinosi, inespugnabile per i suoi muri, i macigni, le putrelle di ferro, i sacchi pieni di terra e gli scudi d'acciaio.
Una vera ridotta che dominava tutto il terreno all'intorno e che avrebbe potuto resistere con successo all'attacco non di un solo plotone, ma di un battaglione intero.
Ma le Fiamme Nere non esitarono un istante e lo attaccarono con laviolenza di un uragano da tutte le parti. La mischia fu oltremodo aspra ma brevissima. Sorpassati i reticolati, gli arditi ruinarono nel fortino come belve e i pugnali assolsero magnificamente il loro compito.
I nemici si difesero con accanimento inenarrabile, ma dopo pochi istanti i superstiti, una diecina, dovettero arrendersi.
Lasciata una squadra a presidiare il fortino, il plotone Montegnacco, proseguendo nella sua avanzata vittoriosa, calò giù nella valle. Ed in breve fu oltrepassata la strada di Ravnica e cominciato l'aggiramento.
Nella furia dell'assalto non s'era avuto il tempo di effettuare una "pulizia", sia pur sommaria, del terreno conquistato, ed il nemico, che durante il nostro bombardamento s'era rifugiato col grosso delle sue forze nelel caverne retrostanti, accortosi dell'esiguo numero degli assalitori italiani, uscì dai suoi rifugi e con una mossa improvvisa circondò gli arditi.
Sole, senza riparo alcuno, le tre squadre del Montegnacco, benché strette come in una morsa da un nemico sei volte superiore di numero, non si arresero, anzi, aiutate da una batteria da montagna che, piazzata sulle pendici orientali del Santo, accortasi della situazione dei nostri, aveva iniziato un tiro violento e bene aggiustato, contrattaccarono con veemenza e costrinsero gli avversari a ritirarsi e a prender posizione in un vicino boschetto d'abeti.
Dell'eroico plotone non rimanevano che l'ufficiale, otto arditi e un caporal maggiore; le fanterie di rincalzo e le automitragliatrici non giungevano e dal bosco il nemico ritornava più furioso.
Bisognava contrattaccare ancora e si contrattaccò. Il caporal maggiore Oliva cadde ferito ad una coscia, ma si rialzò e continuò a combattere e il nemico fu respinto ancora con gravi perdite.

Scattarono le altre compagnie alla medesima ora, come una molla d'acciaio da lungo tempo piegata, mentre il sole spuntava quasi volesse dal firmamento azzurro assistere all'audacia, all'eroismo, al sacrificio degli arditi d'Italia.
Al centro la terza; alla destra, verso Santa Caterina, la seconda e la quarta compagnia.
E l'assalto fu epico. E le rocce del Carso e i monti del Trentino e le pianure della Francia e del Belgio non videro mai e mai più non vedranno nei secoli furia stupenda di meravigliosi guerrieri slanciarsi con tale impeto verso la morte e la gloria.
Nessun indugio, nessuna titubanza. L'erta era scoscesa e faticosa, qua e là roccioni a picco insuperabili; fra i macigni reticolati profondi, intatti; su, nelle trincee nemiche, l'artiglieria nostra diluviava una tempesta di granate e la montagna martoriata centuplicava le schegge.
L'erta fu sfidata, addentata, percorsa, e l'ascesa fu rapida, superba, meravigliosa, e nessun ostacolo, frapposto tra noi e il nemico dalla natura e dall'arte, valse a rallentare, a spezzare, ad arrestare l'impeto sovrumano dei nostri.
La quarta compagnia trovò nel suo cammino uno sbarramento insormontabile: rocce altissime che scendevano a picco, levigate come una lavagna, senza una crepa o un ciuffo d'erba o una radice che permettessero di scalarle. Qualsiasi manipolo d'uomini, per quanto ostinati ed audaci, si sarebbe fermato davanti all'impossibile. Gli arditi no. Dovevano andare avanti anche se quelle rocce fossero alte mille metri e lassù stesse un esercito di giganti vomitante fuoco. E piegarono a destra, non pensando che potevano venir tagliati fuori, non pensando che la stretta del S. Daniele su cui puntavano era una trappola pericolosissima.
E a destra, molto a destra, trovarono i passaggi e s'arrampicarono e salirono e irruppero nelle linee nemiche e le sconvolsero e le superarono.
Non per nulla un ufficiale francese che oggi guardava, da un osservatorio del Sabotino, lo svolgersi dell'azione, esclamò: "Ces soldats ne trouveront jamais, devan leurs paupières, da déroute", e il generale Capello chiamò questa del S. Gabriele "l'azione fantastica".
L'artiglieria nostra allungò il tiro che già gli arditi erano sotto le trincee nemiche. Sul monte non si udirono che l'urlo spaventevole delle Fiamme Nere e le grida di terrore del nemico. I nostri cannoni oramai battevano località lontane, il S. Daniele, ternova, la conca di Gargaro.
Durante il tiro di distruzione delle nostre artiglierie, le truppe nemiche s'erano ritirate nelle caverne retrostanti e nelle trincee erano soltanto rimaste numerose vedette, le quali, al nostro fulmineo attacco opposero un'accanita resistenza con mitragliatrici, bombe e cannoncini.
Fu una mischia ferocissima di pochi minuti. La resistenza fu vinta e i difensori tutti massacrati, le trincee conquistate e superate.
Alle sei e mezza eravamo sulla cresta della montagna orribile e cominciava la lotta contro i rincalzi nemici che sbucavano da tutte le parti, salivano fra le rocce, pei camminamenti, su pei sentieri.
Alle ore sette precise cominciarono a parlare le artiglierie nemiche. Fu un concerto spaventevole. Tutt i pezzi piazzati sul San Daniele, sulla Selva di Tarnova, di là dal vallone di Chiapovano, sulle colline ad est di Gorizia, cominciarono a tuonare ininterrottamente, concentrato il fuoco distruttore sul versante sud occidentale del S. Gabriele che in breve divenne un enorme vulcano dai mille crateri in eruzione. Era l'ora in cui battaglioni della brigata Arno iniziavano la loro avanzata per rincalzare gli arditi. Il tiro austriaco d'interdizione li trovò parte sulle linee nostre di partenza, parte ancora nei punti dell'ammassamento iniziale. E fu un'ecatombe orribile.
Mancavano completamente le caverne; i pochi esistenti furono presto sconvolti, le nostre trincee appena abbozzate difese da pochi sacchetti pieni di terra non erano ripari sufficienti alla furiosa violenza del bombardamento.
E così le belle truppe dell'Arno, prima ancora che potessero svolgere la loro marcia d'avvicinamento verso la cresta conquistata vennero colpite e quasi interamente distrutte. Gli arditi si trovarono soli, con una insuperabile barriera di piombo di fuoco alle spalle, con un nemico numeroso di fronte e ai fianchi, soli con la loro audacia e le loro armi nel più terribile campo di battaglia che si possa immaginare.
Da quel momento la lotta divenne gigantesca e disperatamente eroica.
Sole, a coppie, a gruppi, a squadre, le Fiamme Nere lavinarono giù dalla cresta lungo il difficile pendio come valanghe, contro infinite schiere di nemici che uscite dai loro ricoveri venivano su alla riscossa.
La battaglia si frazionò in cento lotte feroci, infuriò fra le rocce, arse nei camminamenti cupi, divanpò nelle gole, nell'intrico dei reticolati e dei fossi, inasprì nelle gallerie e nelle caverne. E le valanghe nere tutto rovesciarono e travolsero al loro passaggio.
Verso leore nove la battaglia assunse un aspetto nuovo e strano. Il pendio orientale del monte era quasi completamente sgombro di nemici; soltanto alcuni gruppi si ostinavano a resistere.
Ma le visceri del monte erano piene di nemici. Le numerose gallerie, profonde e vaste come caserme, fornite di duplice uscita, sapientemente mascherate, difese da reticolati e mitragliatrici, erano piene d'austriaci i quali forse aspettavano che gli arditi andassero oltre per sbucar fuori e prenderli alle spalle.
Furono miracolosamente scoperte a tempo e venne loro dato l'assalto. Fu la fatica più grande della giornata. Gli arditi, abituati a combattere in campo aperto, si trovarono costretti ad una dura lotta di pazienza e di astuzia, ad assediare quelle fortezze sotterranee che si difendevano a vicenda, a sventare e vincere tutte le insidie d'un nemico nascosto, appostato, introvabile, che non cedeva e non dava quartiere. Fu qui che si rivelò in tutta la sua grandezza il valore degli arditi lanciafiamme. Di sedici apparecchi tredici furono messi fuori uso e soltanto tre ritornarono. Ma diedero tutti risultati stupefacenti. Le gallerie vennero bloccate, le mitragliatrici sconquassate a colpi di petardo, gl'imbocchi terribilmente innaffiati da getti micidiali di liquido infiammato.
E così, a viva forza, si penetrò dentro. E quando parve che le caverne fossero espugnate e che tutti i difensori si fossero arresi e fossero usciti, la lotta si impegnò più vivace e più aspra dentro le gallerie in cui molti nemici erano rimasti.
E si combattè nel buio, in un labirinto inestricabile di passaggi sotterranei a colpi di bombe, a pugnalate, a morsi, a calci, contro mitragliatrici che avventavano raffiche da terribili buche misteriose.
Dopo le dieci tutte le gallerie erano in nostro potere; erano state conquistate oltre quaranta mitragliatrici e venti cannoncini, e più di duemilacinquecento austriaci, incolonnati e scortati da pochissimi arditi, si dirigevano verso le nostre linee di partenza.
Poi fu continuata l'avanzata. La terza compagnia, scesa rapidamente, raggiunse in breve il tratto nord-orientale della strada di Ravnica; la quarta, calatasi nella valle, verso le undici aveva cominciato a scalare le pendici del S. Daniele.
Gli obbiettivi erano stati raggiunti e di gran lunga oltrepassati.
Ora il nemico, pur mantenendo intenso il tiro d'interdizione sul versante occidentale, cominciava a battere furiosamente coi medi e coi piccoli calibri, il versante orientale, mietendo fra le nostre file numerose vittime.
Il fronte si veniva sensibilmente allargando e il numero dei nostri era affatto insufficiente a tener l'ampiezza della linea raggiunta e a vincere le difficoltà delle linee successive che resistevano saldamente ai nostri assalti.
Alla sinistra i pochi uomini di Montegnacco favecano prodigi per tener testa al nemico che li fronteggiava e che, ove li avesse vinti, avrebbe avvolte tragicamente le altre compagnie. La situazione fu salva mercé l'audacia del Montegnacco che, sfidando la fitta cortina di fuoco, recatosi nelle linee nostre, ritornava con una mitragliatrice, munizioni e una trentina di uomini. Fu postata l'arma, vennero improvvisate delle trinceee e la sinistra, sorretta dalla volontà incrollabile di pochi uomini, divenne un caposaldo inespugnabile.
Il tiro nemico d'interdizione si mantenne violento fino al tramonto. Alle ore 14, dal S. Caterina e dal S. Daniele, fu sferrato il primo contrattacco del nemico, le cui forze furono calcolate di tre battaglioni. Calarono giù, protetti dalle loro artiglierie, a plotoni compatti e il cozzo fu formidabile. Furono accolti dal fuoco vivissimo di alcune mitragliatrici austriache conquistate, dagli spezzoni della sezione Bettica, da lanci nutrici di petardi e da colpi di moschetto.
La lotta durò accanita una mezz'ora circa e terminò con un contrattacco nostro alla baionetta che respinse sanguinosamente i tedeschi fino alle loro linee di partenza. Un secondo attacco più terribile del primo si ebbe alle ore 15 e durò con alterna vicenda venti minuti, ma anch'esso s'infranse contro la muraglia di bronzo delle Fiamme Nere e terminò con uno scacco cruentissimo del nemico, che, decimato dalla moschetteria e dalla mitraglia prima, fu poscia volto in fuga a colpi di baionetta e di pugnale.
Un terzo attacco, preceduto da un brevissimo tiro di piccoli calibri, si dovette sostenere alle 15,45.
Per un momento parve che il nemico dovesse aver ragione dell'esiguo numero nostro e già la quarta compagnia, accerchiata da forze preponderanti, si credeva perduta, quando una violentissima irruzione di pochi elementi della terza e un fulmineo disperato scatto della quarta liberò questa dalla stretta e mutò radicalmente a nostro favore le sorti della battaglia. Gli episodi della giornata furono vari e tutti gloriosissimi.
Un ardito pugliese penetrò solo in una galleria, in cui era la sede d'un comando di reggimento, dopo avere ucciso la guardia ed alcuni ufficiali; indi impegnata una vivissima lotta con un colonnello tedesco, che si difendeva a colpi di pistola, riuscì a pugnalarlo.
Due arditi della quarta compagnia, superata, senza esser visti, la prima linea nemica, preceduti oltre, piombarono di sorpresa in un osservatorio d'artiglieria, ne massacrarono le sentinelle e fecero prigionieri due ufficiali.
Nel primo contrattacco austriaco il capitano Carlo Pedercini, comandante della terza compagnia Fiamme Nere, spintosi troppo avanti, fu fatto dopo ostinata resistenza prigioniero. Condotto indietro sotto buona scorta, a pugni e a calci riuscì ad abbattere due nemici e, fattosi largo, spiccò un salto da un roccione alto dieci metri salvandosi.
L'aspirante Pulzelli, anche lui della terza, trovò morte gloriosa nel secondo contrattacco, durante il quale, slanciatosi da solo contro un forte nucleo tedesco che tentava aggirare la destra della compagnia, riusciva a sventare l'insidia nemica fugando gli avversari a colpi di etardi, poscia avventatosi contro una mitragliatrice, che faceva un fuoco d'inferno, cadeva trafitto da baionetta mentre, dopo aver pugnalato due serventi, stava per impadronirsi dell'arma.
Più fortunato, se non più audace, fu un aiutante di battaglia della seconda che, fatto prigionieri, riuscì a liberarsi e, capitato, mentre tornava fra i suoi inseguito da un numeroso drappello nemico, alle spalle d'una mitragliatrice tedesca, l'attaccò, massacrò i serventi, indi, rivoltata l'arma, mise in fuga gli inseguitori.
Narrare, uno per uno, tutti gli episodi di oggi è impossibile, poichè la sanguinosissima battaglia, ha dato luogo a fatti che sembrano creati dalla fantasia d'un romanziere bizzarro.
E poi sarebbe inutile citare i particolari: ogni ardito, nel breve giro di un giorno, ha avuto la sua mirabolante odissea e tutti insieme possono andare orgogliosi di aver combattuta e vinta la più aspra battaglia.
Peccato che siano mancati i rincalzi!
Oggi avremmo espugnato il S. Daniele e gran parte di Ternova.
Alle ore 16,30 invece, soverchiati da truppe fresche e numerose, decimati da un giorno intero di feroce lotta, ridotti a meno di duecento, senza difese, senza munizioni, senza un riparo alle artiglierie nemiche che bombardavano orribilmente, s'è dovuto di nostra iniziativa prender posizione sulle pendici orientali del S. Gabriele.
Alle 17 la nostra linea correva dalla strada di Ravnica fin quasi alla cresta, alla sinistra del S. Caterina.
E qui si dovette far fronte a tre contrattacchi.
Per tre volte il nemico attaccò furiosamente e per tre volte fu respinto e inseguito fino alle sue linee di partenza, poi le prime ombre cominciarono a discendere e con la sera il tiro d'interdizione rallentò e si diradò.
Alle 18,30 cominciarono ad arrivare i primi rincalzi, alle 19 le nostre compagnie, ridotte a 180 uomini e a 6 ufficiali, consegnata la linea alla fanteria, discendevano verso Salcano.
Era là, ad aspettare, il generale Bonaini, comandante l'undecima divisione, che ha voluto vedere i superstiti gloriosi e tributar loro, sul campo, l'encomio solenne.

Salcano, notte del 4 settembre del 1917
Il bottino è stato enorme. I prigionieri ascendono a più di tremila, le mitragliatrici a cinquantacinque, i cannoncini a ventisei.
Lassù romba ancora il cannone e lassù si ritornerà domani per allargare la nostra conquista e vendicare i nostri morti d'oggi.
C'è qui l'attendente del povero Stefanoni, morto eroicamente, che giura rabbiosamente di voler fare la pelle a mille austriaci per vendicare il suo ufficiale. Ed è uomo che sa mantenere la parola.

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