Fucilazioni, repressioni, decimazioni. Parte I

Durante la Grande Guerra vennero applicate misure repressive drammatiche quali le fucilazioni dei soldati. La fucilazione era lo strumento repressivo da eseguirsi nei casi di rivolta, ammutinamento, codardia di fronte al nemico o più semplicemente di disubbidienza o insubordinazione, e ne era soggetto il soldato di tutti gli eserciti, entro i limiti stabiliti dai codici di diritto penale militare delle nazioni coinvolte nel conflitto. Il Regio Esercito italiano si distinse dagli altri per i molti casi nei quali venne applicata questa misura repressiva. Il Comando Supremo italiano favorì l'applicazione della fucilazione in tutti i modi possibili, intendendola come strumento di disciplina principale, nei confronti della truppa dimostrante comportamenti di crisi e rifiuto all'azione che, visto il nuovo modo di fare guerra particolarmente stressante e complesso, aumentavano mese dopo mese.

Regio Esercito Italiano - Comando Supremo
Circolare n. 1 del 24 maggio 1915

I. Il Comando supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l'esercito una ferrea disciplina. Essa è condizione indispensabile per conseguire quella vittoria che il paese aspetta fidente ed il suo esercito deve dargli.
II. Sia disciplina che si sprigioni dal fondo dell'anima, ma investa altresì tutte le manifestazioni esteriori; sia disciplina spirituale ed insieme formale, poichè le due cose sono inscindibili e solo dall'intimo loro nesso disciplinare: l'ordine perfetto e l'obbedienza assoluta.
III. Fonte prima, la più perniciosa, dello scadimento della disciplina è la colpevole e talvolta criminosa tolleranza di coloro che dovrebbero invece esserne i più vigili custodi. Nessuna tolleranza mai, per nessun motivo, sia lasciata impunita; la si colpisca anzi, con rigore esemplare, alla radice, appena si manifesti, sia qualunque il grado e la posizione di chi tolleri.
IV. Altra grave causa di rilasciatezza disciplinare sta nella deficienza di controllo; lo si esiga perciò sempre: assiduo, vico, stimolante.
V. Si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile rigore. Ufficiali e truppe sentano che i vincoli disciplinari sono infrangibili e che qualunque attentato alla loro compagine è destinato a spezzarsi contro l'incrollabile fermezza dei principi d'ordine, d'obbedienza d'autorità.
VI. La punizione intervenga pronta: l'immediatezza nel colpire riesce di salutare esempio, distrugge sul nascere i germi dell'indisciplina, scongiura mali peggiori e talvolta irreparabili.
VII. La legge dà i mezzi per ridurre od infrangere le volontà riottose o ribelli: se ne valgano coloro cui spetta, con la coscienza di adempiere al più alto dei doveri e il più sacro dei diritti.
VIII. Il Comando supremo riterrà responsabili i Comandanti delle grandi Unità che non sapessero, in tempo debito, servirsi dei mezzi che il Regolamento di disciplina e il Codice penale militare conferiscono loro, o che si mostrassero titubanti nell'assumere, senza indugio, l'iniziativa di applicare, quando il caso lo richieda, le estreme misure di coercizione e di repressione.
IX. Alla inesorabile severità verso gli infingardi, i riottosi e i pusillanimi, facciano riscontro la sollecitudine e il premio verso chiunque, fornendo consueta seria prova di attività, ardire, energia e senso della responsabilità, mostri d'agire, non per deleteria ambizione personale, ma pel bene comune. Debbono costoro essere sostenuti, anche quando la sorte non ne assecondasse completamente l'opera: bisogna cercare di non sconfessarli o diminuirne il prestigio e l'autorità.
Firmato: Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, L. Cadorna

Come ai tempi dell'Inquisizione Spagnola. Repressione e sana esemplarità erano le uniche soluzioni per rendere mansueti i soldati che si facevano ammazzare in assurdi attacchi, molto spesso mal guidati e disorganizzati. Ma lo stesso Cadorna stabiliva che la vittoria spettava alle truppe più disciplinate e non alle meglio istruite ed organizzate. Ed ancora, egli stabilì che in faccia al nemico, la sola via aperta è quella dell'onore, quella che porta alla vittoria o alla morte nelle trincee avversarie. Un avvertimento per tutti quelli che indietreggiavano o che cadevano prigionieri di guerra: prima o poi avrebbero scontato la pena; vale a dire che o il soldato si beccava le pallottole nemiche e nella stragrande maggioranza dei casi ci rimaneva, o si sarebbe beccato le pallottole dei Carabinieri nel caso avesse deciso di indietreggiare e quindi di macchiarsi d'infamia, sempre che non fosse freddato dal piombo del suo ufficiale prima di essere raggiunto da quello dei Carabinieri.

Così infatti recitava la Circolare n. 3525 del 28 settembre 1915, sempre redatta da Cadorna.
Deve ogni soldato esser certo di trovare, all'occorrenza, nel superiore fratello od il padre, ma anche deve esser convinto che il superiore ha il sacro dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi. Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell'onore, quella che porta alla vittoria od alla morte sulle linee avversarie; ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto, prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell'ufficiale. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà, inesorabile, esemplare, immediata, quella dei tribunali militari; adinfamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi [...]. Sia data alla presente circolare la più larga diffusione [...].

Di fatto, la circolare n. 3525 dava più ampi poteri agli ufficiali in fatto di giustizia sommaria e ne giustificava ed assolveva al tempo stesso l'operato in tal senso. E fu così che il primo ufficiale a guadagnarsi il solenne encomio per aver ammazzato 11 suoi soldati applicando la giustizia sommaria, permessa agli ufficiali, fu il colonnello Attilio Thermes, comandante del 141° fanteria della brigata Catanzaro. L'accusa mossa agli 11 sfortunati fu quella di sbandamento durante uno dei giorni più difficili del tentativo di arginare la Strafe Expedition austriaca sugli Altipiani.
La prima sentenza di condanna a morte mediante fucilazione fu invece comminata dal Tribunale Militare di Guerra del IX Corpo d'Armata di Agordo il 15 settembre 1915 ai danni di un'alpino della 206a compagnia del 7° Reggimento Alpini, btg. Val Cordevole, dopo un combattimento in zona Marmolada. Lo sventurato era stato vittima di più d'un episodio di autolesionismo. Il 19 giugno 1915 si era procurato volontariamente lesioni alle dita della mano destra. Ricoverato all'ospedale da campo, non sorsero sospetti sulla volontarietà delle cause dell'incidente. Fu quindi rispedito in linea ma, il 3 di agosto dello stesso anno, si ripresentò nuovamente al posto di medicazione con una ferita d'arma da fuoco all'indice della mano già lesa in precedenza. La ferita gli impedì di svolgere il servizio militare e la voce sulla storia in questione iniziò a fare il giro delle truppe, giungendo inevitabilmente all'orecchio del Comando del IX Corpo d'Armata. L'alpino fu quindi arrestato e processato dal tribunale militare. La condanna fu eseguita il 20 settembre 1915.

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